Presentazione:
Si entra in questo libro come varcando i cancelli invisibili dell’infanzia: dentro vi troviamo Edward, Harold, Selina, Charlotte, il narratore, cinque bambini in una casa di campagna inglese verso la fine dell’Ottocento, pronti a difendere con il coltello fra i denti qualcosa che non sanno neppure essere la felicità. Intorno a loro gli zii, e altri adulti di passaggio: sono «gli Olimpii», esseri che insistono nel dedicarsi a patetiche, irragionevoli e incongrue occupazioni, quando potrebbero fare ben altro: «Avrebbero potuto sguazzare tutto il giorno nello stagno, inseguire i polli, arrampicarsi sugli alberi coi più impeccabili vestiti della festa; erano liberi di comprare polvere pirica alla luce del sole, di sparare palle di cannone e di far esplodere mine sul prato: ma loro non se lo sognavano nemmeno». I ragazzi, invece, guatano ogni attimo disponibile per gettarsi in attività inebrianti: scavalcare muri in camicia da notte; sfogliare il Libro delle Fate; perseguitare volatili; trasmettere bigliettini amorosi; offrire bomboloni fantasma a viaggiatori invisibili; scegliere una dama a cui votarsi. E soprattutto complottare senza tregua, attizzare una complicità iniziatica e uno spirito di sedizione che può manifestarsi nello scivolare lungo la ringhiera delle scale come nell’offrire un topo morto a una signora o nel fuggire in barca lungo il fiume, cercando – e naturalmente trovando – la Principessa. Ovvio presupposto, per questi ragazzi, è che la vita consista soprattutto nel «far finta» – e che, a sua volta, il «far finta» sia il modo più sicuro per entrare in contatto con le cose che ci sono. Sanno che il frutteto è un «luogo prodigioso abitato dai folletti», sanno che i personaggi più fascinosi che si trovano nei libri esistono proprio perché se ne parla nei libri, riconoscono subito certe «sillabe magiche» in parole come «grotta», «trabocchetto», «forziere», «lingotti d’oro», «dobloni». Un giorno, facendo scattare una molla in uno scrittoio abbandonato, uno dei ragazzi scoprirà un «cassetto segreto». Ma, invece del tesoro dei pirati, vi troverà «due bottoni d’oro ossidati che parevano da marinaio, il ritratto di un monarca a me sconosciuto, ritagliato da una vecchia stampa e abilmente colorato a mano con lo stesso tipo di spavalda tinteggiatura che usavo io; alcune monete straniere, di rame, più spesse e di fattura più rozza di quelle che possedevo io; e un elenco di uova di uccelli, coi nomi dei posti dove erano state trovate. E poi il muso di un furetto, e una corda catramata che serbava ancora un lieve odore». Per una volta, il ragazzo non allunga la mano avida su quelle disparate reliquie, ma le richiude nello scrittoio. È quello il tesoro dell’infanzia, che si trasmette intatto di generazione in generazione. «Restituii il cassetto, con tutto il suo contenuto, al fidato scrittoio, e con una certa soddisfazione sentii lo scatto della molla. Un giorno, forse, un altro ragazzo l’avrebbe fatta scattare di nuovo».